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martedì 7 dicembre 2010

“LO PERDONO, LUI LO AVREBBE FATTO”.


Dal Corriere della sera di oggi 7 dicembre 2010, pag 23, riporto un articolo di Fabrizio Caccia.



Merita di essere letto, rappresenta l'essenza di cosa significa essere educatori ed avere un cuore grande dilatato sull'umanità.  E' la moglie del professore/ciclista morto insieme ad altri sei amici nel tragico incidente di Lamezia.      
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“LO PERDONO, LUI LO AVREBBE FATTO”.



C’è una donna che tutt’Italia, adesso, dovrebbe conoscere. E ringraziare. Per l’esempio di civiltà, di amore e sovrumana testimonianza che ha scelto di dare. Si chiama Teresina Natalino, è la vedova di Fortunato Bernardi, il Professore, l’insegnante di educazione fisica della scuola media “Nicotera” falciato domenica mattina sulla statale 18 insieme ai suoi amici del Cicloclub Lamezia. Sette bare per un solo funerale, questa mattina allo stadio comunale: Rosario, Franco, Domenico, Pasquale, Fortunato, Giovanni, Vinicio. E’ l’ultimo saluto. Lamezia Spoon River.
Teresina è distesa sul letto, nella cameretta matrimoniale delal casa di via Cimabue, schiantata dal dolore ma con uno sguardo terso, luminoso, è anche lei come il marito un’insegnante di ginnastica e ha la cattedra a Gizzeria, il comune del lametino con la più alta presenza di immigrati, quasi tutti marocchini come Chafik, il ragazzo imprudente con tracce di cannabis in corpo che l’altroieri ha causato la strage di ciclisti e abita a Contrada Mortilla, in un palazzo adesso sorvegliato giorno e notte da polizia e carabinieri come un obiettivo sensibile, a rischio forte di rappresaglie.
“Ma io lo perdono”, sussurra inaspettatamente Teresina nel cuore del pomeriggio a don Pietro Folino Gallo, il giovane viceparroco della chiesa di Santa Maria Goretti che la va a trovare, lasciando di stucco tutti gli altri parenti raccolti nella stanza. “Sì, io lo perdono - spiega la maestra al giovane prete incredulo - . Perché anche mio marito, se fosse stato vivo, io lo so, avrebbe fatto la stessa cosa. Perché, sapete, per tutta la vita noi due siamo stati educatori e prima ai nostri figli e poi a tutti gli alunni delle scuole abbiamo sempre e solo insegnato la legalità, la giustizia, la non violenza. Se fosse vivo, Fortunato, direbbe lui stesso ai suoi ragazzi: adesso calma, non cercate la vendetta, non seminate odio e discordia nel paese”.
E’ un messaggio già questo sublime, ma Teresina poi dice un’altra cosa bellissima, che squarcia come un arcobaleno le nubi tristi di questi giorni. “Sapete, padre - si rivolge ancora a don Pietro - io in classe a Gizzeria ho tanti alunni marocchini, tanti bambini che spero presto di rivedere e di poter riabbracciare. Ecco voglio adesso dir loro che il mio bene non è mutato e tornerò in classe senza rancore, con la voglia intatta di dialogare ancora.”
Bisognerebbe farle un monumento a questa donna gracile, minuta, ma con lo spessore e la coscienza di un gigante. “Noi eravamo una grande famiglia - racconta Teresa - . Unita, anzi unitissima. Abbiamo cresciuto figli (Alessandro e Chiara, ndr) nella fede cristiana. Ed è per questo che dico che la morte oggi non è riuscita a spezzare questo vincolo, io credo anzi che Fortunato dal cielo continuerà ad accompagnarci ogni giorno che resta nel nostro cammino terreno”.
Una lezione di coraggio, di forza interiore, che per paradosso il ministro Gelmini dovrebbe far arrivare a tutte le scuole d’Italia. Quando don Pietro tornato in parrocchia racconta queste parole ai ragazzi dell’oratorio si accorge subito del loro imbarazzo (Ma come? Perdono? A quel delinquente?).
Ma non è buonismo, quello di Teresa, attenzione. “Adesso mi aspetto che la giustizia faccia il suo corso, naturalmente, perché io credo nella legge e credo che vada sempre rispettata” - conclude la professoressa. Però quello che m’importa veramente non è tanto che il ragazzo marocchino venga punito, quanto piuttosto che egli capisca, che si renda conto, che impari qualcosa da tutto il male che ha fatto. Non conta la pena. Conta l’educazione.

Lamezia - Angeli e Campioni sulle due ruote


E' da ieri che con il cuore e con la testa ripenso a quanto accaduto a Lamezia. Un senso di sgomento e di smarrimento mi taglia l'anima. Amici di fatica, seppur sulle due ruote, che percorrevano strade conosciute e calpestate a cavallo delle mie scarpette di runner.
Mi urge volgere verso il Cielo, una preghiera per questi sportivi veri, veri amatori della fatica, portatori di amicizia solidale. Una parola, per quanto possa valere, per i familiari e gli amici, per i compagni di squadra, per chi ancora lotta, per chi è vivo per miracolo,  e per tutta Lamezia ancora sgomenta.
Voglio ricordarli uno per uno, ognuno di essi era un mondo intero di abnegazione e forza, nei muscoli per macinare chilometri fatti di gioia e sofferenza, abbattimento ed esaltazione, ma forza anche interiore che aiutava e aiuta la gente di Lamezia, a trovare i valori veri.
Adesso siete in fuga, ma non solitaria.

Ciao,  Fortunato , Rosario, Francesco, Vinicio, Giovanni, Pasquale, Domenico

V    Vi saluto, sulle note di una delle canzoni che vi dava l'energia per correre lungo la maledetta statale 18, che vi  faceva spianare le arrampicate delle nostre parti, che vi faceva andare incontro alla brezza marina, 
che vi fa andare adesso verso la Cima Paradiso
E ora, senza più arrancare, risalite lungo i tornanti della Montagna Luminosa.






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